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Angelo: cane seviziato e ucciso nel 2016. Un simbolo della crudeltà che nasce dall’abbandono

Nel giugno del 2016, l’Italia è stata costretta a guardarsi allo specchio. Una storia di violenza, apparentemente isolata, ha fatto esplodere un dolore collettivo, mettendo in discussione il rapporto tra l’uomo e gli animali. A Sangineto, un comune della Calabria, quattro ragazzi hanno seviziato un cane randagio. Si chiamava Angelo. Lo hanno legato a un albero, torturato a colpi di bastone, filmato durante l’agonia. Poi hanno condiviso quel video sui social. Come se fosse un trofeo. Una goliardata. Una sfida tra carnefici.

Il filmato ha fatto il giro del web. Il nome di Angelo è diventato virale. Ma non era solo un cane. Era un simbolo. Di innocenza, di fiducia tradita, di una brutalità troppo spesso taciuta. E da quel momento, l’Italia non ha più potuto ignorare la violenza sugli animali.

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Chi era Angelo, il cane randagio che cercava solo affetto

Angelo non aveva un padrone. Ma non era aggressivo. Non faceva paura. Al contrario: si avvicinava alle persone in cerca di una carezza, di un pezzo di pane, di uno sguardo gentile. Chi lo ha incontrato ricorda un cane tranquillo, forse troppo fiducioso. Non immaginava che proprio quella fiducia sarebbe diventata la sua condanna. Lo hanno attirato, legato, torturato. E lo hanno fatto ridendo.

Angelo era un randagio, ma non era nato tale. Qualcuno lo aveva abbandonato. E in questo dettaglio si nasconde una verità scomoda: l’origine di quella tragedia non è solo la violenza. È l’indifferenza. È la cultura dell’abbandono.

Un processo che non ha fatto giustizia

Nel 2017, i quattro responsabili del massacro furono processati e condannati a 16 mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena. Nessuno di loro ha fatto un giorno di carcere. Il giudice ha imposto sei mesi di lavori socialmente utili presso associazioni animaliste e un risarcimento simbolico alle parti civili. Ma per l’opinione pubblica, quella sentenza è stata una seconda ferita. Troppo poco. Troppo lieve. Per un gesto così barbaro.

Eppure, proprio quella sproporzione ha fatto crescere una coscienza collettiva. Sono nate petizioni, proteste, campagne di sensibilizzazione. A Roma, una statua è stata dedicata ad Angelo: un’opera di arte pubblica che grida una verità scomoda, che non può essere ignorata.

Cosa c’entra l’abbandono? Tutto.

Angelo è morto perché era solo. Perché qualcuno, tempo prima, aveva deciso che non serviva più. Che poteva essere lasciato in strada, dimenticato. L’abbandono è il primo anello di una catena di crudeltà. È il momento in cui un animale passa da “compagno” a “problema”. Da presenza amata a ingombro. E così viene gettato via.

In Italia, ogni anno, più di 100.000 cani e gatti vengono abbandonati. Alcuni finiscono in canili sovraffollati. Altri muoiono investiti. Altri ancora, come Angelo, diventano invisibili. Prede facili per chi si diverte a fare del male. Dietro ogni randagio, spesso c’è un abbandono. E dietro ogni abbandono, può nascondersi una tragedia.

Abbandonare un animale non è solo un crimine. È un fallimento umano.

Secondo l’articolo 727 del Codice Penale, abbandonare un animale è un reato, punito con l’arresto fino a un anno o con l’ammenda fino a 10.000 euro. Ma oltre la legge, c’è un dovere morale: non si abbandona chi si fida di te. Non si lascia indietro chi non ha voce. Abbandonare un cane significa consegnarlo alla solitudine, alla fame, al freddo, ai pericoli. Significa – in casi estremi – condannarlo alla morte.

E soprattutto: significa alimentare un ciclo di sofferenza che riguarda tutti. Un cane abbandonato può causare incidenti stradali, trasmettere malattie, aggredire per paura. Ma il danno più profondo è invisibile: è l’assuefazione al disprezzo della vita.

Dobbiamo cambiare prospettiva. E responsabilità.

Ogni volta che ignoriamo un cane randagio, ogni volta che restiamo in silenzio davanti a un abbandono, diventiamo parte del problema. Angelo è stato ucciso da quattro ragazzi, ma la sua morte ci riguarda tutti. Riguarda le istituzioni che non controllano, le scuole che non educano, le famiglie che non trasmettono empatia, i social che amplificano l’orrore senza filtro.

E riguarda anche chi oggi legge e può fare qualcosa. Perché la verità è semplice: tutti possiamo fare qualcosa.

Cosa possiamo fare concretamente:

  • Non abbandonare mai un animale, neanche nei momenti di difficoltà. Ci sono strutture e associazioni pronte ad aiutare.
  • Segnalare immediatamente casi di maltrattamento o abbandono alle forze dell’ordine o alle associazioni animaliste.
  • Scegliere l’adozione responsabile invece dell’acquisto. I canili sono pieni di animali meravigliosi in cerca di una seconda possibilità.
  • Sensibilizzare, educare, raccontare storie come quella di Angelo. Perché il ricordo è l’unico vaccino contro l’indifferenza.

Conclusione: se il prossimo Angelo fosse dietro l’angolo?

Angelo non è solo una ferita nella memoria collettiva. È un campanello d’allarme. È lo specchio di una società che deve fare i conti con il proprio senso di giustizia, di empatia, di responsabilità.

Ricordare Angelo significa scegliere. Scegliere da che parte stare: con chi ama, protegge e rispetta… o con chi abbandona, ignora, uccide.

Che la sua morte non sia stata vana. Che la sua storia diventi lezione. E che nessun altro cane, nessun altro essere vivente, debba mai più essere chiamato Angelo solo dopo essere stato ucciso.

Con affetto e speranza Nicole Moscariello (@nicolemoscariello)

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