Andrea Roncato: l’attore. Questo è il punto di partenza, inevitabile e forse anche un po’ riduttivo.
Come attore, ha prestato il volto – e la risata – a ruoli perlopiù comici, spesso leggeri, a tratti volutamente superficiali, figli di un cinema che aveva bisogno di sorridere più che riflettere.

È per questo che non vi parlerò di chi è Andrea Roncato secondo Google, secondo le interviste patinate o i titoli acchiappa-click. Quelle versioni sono ovunque, costruite su misura per il web di oggi: rapide, consumabili, confezionate come i personaggi che ha interpretato, non come l’uomo che li ha interpretati.
Oggi, invece, vi parlo di lui. Ma non lo faccio con i miei occhi. Provo a farlo con gli occhi di un toro. Sì, un toro. Un animale che Andrea ha incontrato su un set, quando le luci erano spente e nessuno guardava più. Un toro che non era un personaggio, non era un simbolo, non era nemmeno più utile: era un condannato al macello. Eppure, da quell’incontro silenzioso e autentico, è nato qualcosa che nessuna sceneggiatura aveva previsto. Perché lì, proprio lì, Andrea Roncato non ha recitato. Ha scelto.

Quindi chi è Andrea Roncato? L’uomo, non l’attore.
Lo racconto io. Un toro. Uno di quelli nati per morire. Ma non quel giorno.
Mi chiamo… non importa. Tanto a noi non danno nomi, solo un peso al chilo.
Sono arrivato su quel set come si arriva ovunque, noi bestie mandate a fare la comparsa del destino: con una corda al collo e il silenzio negli occhi. Dovevo restare fermo, comparire in una scena, forse due. Poi sparire. Per sempre.
All’inizio non capivo molto. Luci, urla, quel caos umano che sa essere così rumoroso e vuoto allo stesso tempo. E poi lui. Andrea. Non sapevo chi fosse. Solo un altro umano, pensavo. Ma no, qualcosa mi si muoveva dentro ogni volta che passava vicino. Aveva lo sguardo lento. Uno sguardo che non cercava, che non consumava. Uno sguardo che vedeva.
Nei primi giorni si è avvicinato piano. Non parlava. Respirava. Rimaneva lì, come se avesse capito che con certi esseri non serve la voce. Solo presenza. Io l’ho annusato. Lui mi ha guardato. Non come fanno gli altri. Ma con qualcosa che assomigliava al rispetto.
Durante le pause veniva sempre da me. Non con il pane, non con le carezze. Con il tempo. E col silenzio. Si sedeva lì vicino, lasciando che fossi io a decidere se accostarmi o restare. E ogni volta che lo facevo, sentivo che non c’era paura nei suoi muscoli. Nessuna difesa. Come se, per lui, io non fossi un pericolo ma una possibilità. Una domanda.
Poi è arrivato l’ultimo giorno. Il regista ha urlato l’ultimo ciak. Il rumore si è sciolto. Il set ha cominciato a svuotarsi. Era il momento. Lo sapevo. Me lo sentivo nelle ossa. Stavo per essere riportato via. Verso quel posto dove gli odori non sono più quelli dell’erba ma del sangue. Dove il mio destino mi aspettava, scritto da sempre.
Ma lui no.
Lui si è messo davanti a me.
Non con la forza. Non con la voce. Ma con il corpo. Con il cuore. Con un “no” che non ha detto, ma che tremava in ogni centimetro della sua pelle.
Ci sono volute delle telefonate. Degli sguardi storti. Un po’ di insistenze. Ma alla fine… il camion per me non è mai arrivato. Andrea ha fatto qualcosa che nel suo mondo si chiama “comprare”. Ha pagato. Ma io non credo sia stata una transazione. È stata una restituzione.
Mi ha portato in un posto diverso. Più grande, più verde, più vero. E da quel giorno mi ha lasciato vivere. Non mi ha chiesto niente. Né gratitudine, né spettacolo. Solo di esserci. Libero.
Quindi, chi è Andrea Roncato?
Non lo so spiegare come fate voi umani. Ma so riconoscere chi salva senza dire. Chi ama senza mostrare. Chi guarda e vede.
Lui non è solo l’attore. È l’uomo che, in mezzo a un copione scritto da altri, ha scelto una battuta diversa.
E grazie a quella battuta, ho conosciuto la libertà.
Ed è proprio grazie a questa libertà che ho potuto riflettere su ciò che gli umani spesso ignorano fermandosi all’apparenza, alla superficialità, alle risate e alle battute frivole.
Perché non è con l’ applauso ma col silenzio che si rivelano le verità più profonde. Non nei riflettori, non nei monologhi scritti a tavolino. Ma nei gesti che non hanno pubblico. Nelle scelte che nessuno applaude. Andrea non mi ha salvato per farsi vedere, non ha chiesto interviste, non ha raccontato l’aneddoto in diretta tv. Mi ha salvato perché ha sentito che era giusto. E basta.
E allora vi dico questo: Andrea Roncato è un uomo che sente.
Sente la vita quando entra in un luogo, quando si avvicina a un altro essere vivente.
Sente la dignità negli occhi di chi non può parlare.
Sente il respiro del creato, anche quando gli altri non lo sentono più.
In quel set, in mezzo a un copione, Andrea ha riconosciuto una vita. Ha visto un’anima sotto la pelle di un animale. Ha avvertito quella sottile vibrazione che unisce tutti gli esseri che esistono, e ha scelto di rispondere con l’unica cosa che ha davvero valore: l’umanità.
E cos’è l’umanità, se non la capacità di riconoscere che la vita – tutta la vita – merita rispetto?
Che ogni creatura, anche quella senza voce, anche quella che secondo i contratti doveva semplicemente “essere portata via”, ha diritto a esistere, a respirare, a continuare a essere?
Andrea non si è commosso. Non ha pianto. Non ha fatto scena.
Ha semplicemente sentito che io – un toro, un animale da carne – ero vivo.
E che la vita, quando la incontri, non puoi far finta di niente.
Ha visto un essere e non un oggetto.
Un compagno, non un mezzo.
E io, in quel momento, ho capito una cosa che i miei simili non sanno dire, ma sanno provare:
non tutti gli uomini sono ciechi.
Non tutti passano accanto al dolore senza accorgersene.
Non tutti hanno dimenticato il legame con la Terra, con gli occhi degli altri, con il ritmo misterioso dell’esistenza.
Andrea non ha parlato la lingua delle bestie, ma ci ha capiti.
E chi comprende chi è diverso da sé…
sta già facendo il gesto più umano che esista.
Per questo vi racconto la sua storia. Non per idolatrarlo. Non per aggiungere un altro nome a una lista di eroi.
Ma perché, in un mondo dove l’indifferenza è diventata normalità, c’è ancora chi riesce a riconoscere il sacro nella pelle di un animale.
C’è ancora chi ascolta il silenzio.
E lo trasforma in vita.
